mercoledì 2 ottobre 2019

CACAO


Cacao





"La nascita dei Cacao è legata ad una lunga pausa forzata dagli Actionmen, band punk rock nella quale suonavamo entrambi da quando frequentavamo le scuole superiori. Ci siamo ritrovati in due, pieni di energia e voglia di suonare, molto tempo libero ed una sala insonorizzata a disposizione ventiquattro ore al giorno. All'epoca eravamo entrambi votati solo ed esclusivamente al punk rock più tecnico e veloce.
Ci siamo chiusi in sala prove con una grande amarezza, suonavamo per ore ed ore cercando di andare più lontano possibile da quello che avevamo sempre suonato, quasi come per sfogarci.
Entrambi siamo molto emotivi e stavamo vivendo un momento molto triste.
Da quei mesi di sessioni è germinato il sound dei Cacao"

Non lascio affogare nel mare di una cartolina i ricordi dell'estate appena passata, ripercorro le esperienze e torno a pensare ai Cacao.
Li ho visti suonare nel caldissimo pomeriggio dell'Italian Party a Umbertide.
Ho sentito il loro riverbero rimbalzare tra le mura della piazzetta fino a me, che stavo arrivando di buon passo. Mi sono unito alla calca interrogativa che li attorniava; li ho circumnavigati per carpirne le tecniche, mi affascinava il loro modo di presentarsi come se fossimo entrati tutti nel loro salotto e loro neanche si accorgessero di noi, chini sui propri strumenti e multieffetto.

Dunque ho chiesto loro di farsi intervistare: hanno accettato, gentilissimi.

Torniamo a quel 20 di Luglio.
Mentre li filmo, Matteo, il chitarrista, mi dà le spalle, ma da dove mi trovo vedo benissimo il suo circuito di pedalini segreto, la sua ricetta per quel suono interstellare.
"La chitarra che uso è un G&L F-100 degli anni ottanta (arrivata a me per puro caso, come più o meno tutto, lungo la mia strada), mi era stata consigliata da colui che poi sarebbe diventato il futuro produttore/discografico dei Caco: Francesco Giampaoli.
Mi trovavo in un periodo di spensieratezza economica e l'ho comprata, poi l'ho lasciata inutilizzata per anni e infine riscoperta.
Negli anni mi sono appassionato ai pedalini "sfuma-errori" come delay, reverberi e modulatori, cambiandone e provandone compulsivamente vari tipi, trovando, ancora casualmente, la sequenza che attualmente utilizzo: boost/ reverbero freeze/ octaver/ phazer/ delay/ delay/ octaver.
Inconsapevolezza e disciplina, da qui nasce il nostro suono.".

 
Mi concentro adesso su Diego ed il suo Fender Jazz Bass.
Lo vedo e lo sento rintoccare pochissime note che però escono vive e penetranti. Vedo che se le gode una per una e le segue con leggeri movimenti del corpo e del piede sinistro.
Gioca di continuo, anche lui, con la serialità del suono che un delay corto gli rilancia indietro potenziata dalle rifrazioni, gli echi e le sovrapposizioni delle note: in un loop tutto si autoalimenta e crea stabilità sulla quale continuare a salire verso l'alto.
"Mi ritrovo ad essere un minimalista un po' per gusto e un po' a causa dei miei limiti" - confessa sincero - "Ho cercato di dribblare i miei punti deboli. Ammiro la forza dei bassisti reggae e dub ed avvicinarmi ad avere quella consapevolezza e potenza ritmica, oltre che melodica, è per me un obiettivo quotidiano. Paradossalmente mi rivedo più in Cliff Williams, Malcolm Young e Chris Slade, sia presi singolarmente che come entità unica (AC/DC), durante Let There Be Rock a Donnington.









"Con i Cacao mi viene molto più naturale avere questo ruolo più ritmico: non essendoci una batteria si creano degli spazi davvero interessanti che posso occupare. Poi la cosa di creare un loop vivo e farlo rotolare mi diverte molto. mi appaga, oltre ad essere sempre uno stimolo creativo.
In effetti sono stato, come tanti bassisti, folgorato da Les Claypool e la sua impronta me la sento addosso"

Ma la mano del producer è un timbro di garanzia. Non solo, spiega Diego: "C'è comunque lo zampino di Francesco (Giampaoli) anche qui. E' stato, prima che produttore e discografico dei Cacao, mio maestro di basso. Tra i suoi numerosi consigli ci fu quello di acquistare un delay ed un octaver di una serie anni '80 della Ibanez: la Power Series. Accettai il suggerimento, ma per anni non sono stato in grado di trovare un senso a quei pedali, poi nelle sessioni con Matteo, giocandoci, siamo riusciti a tirarne fuori qualcosa che ci è piaciuto. E' evidente che l'ispirazione nasce da One of These Days dei Pink Floyd, per poi trovare anche analogie con svariati beat di musica elettronica.".

Parliamo ora del loro disco: Astral.
Rispecchia molto quello che si sente dal vivo senza eccessivi aggiustamenti e post-produzioni. Mi chiedo e pongo a loro la domanda di come abbiano fatto a registrarlo.
Uno "stream of  consciousness" di chitarra e basso in stile kraut-rock che abbraccia numerosi generi e citazioni, dalla disco al dub al tango! 
Spiegano i Cacao: "Un imprinting forte sul nostro stile lo abbiamo ricevuto nelle estati dei primi 2000 passate a Marina di Ravenna.
Durante il weekend le spiagge erano invase da migliaia di persone ed ogni stabilimento balneare aveva la sua festa con relativo dj set dal pomeriggio a notte fonda. Sentivamo musica techno, afro, il rock più becero e le hit degli '80 e '90, oppure funky e disco music.
Capitava sovente di ritrovarsi, in stati spesso alterati, nella duna alla metà esatta fra due feste: lì si creava una mescolanza di sound incredibile!
Questa promiscuità sonora, oltre ad averci fatto scoprire un sacco di musica nuova ogni settimana, ci ha soprattutto aperto la mente e dato spunti e punti di vista che a distanza di anni sentiamo far parte della visione dei Cacao.".
Passiamo agli aspetti più tecnici dell' incisione:
"La fase di registrazione del disco è stata particolare. Abbiamo fatto tutto da Giampaoli, nel suo studio Al Mare, a Lido di Dante (Ravenna), vicino a casa nostra. Andavamo lì la sera ed affrontavamo un paio di brani alla volta con due take per ciascuno. Il giorno successivo ascoltavamo tutto con calma e decidevamo se era buono o da suonare di nuovo, o se qualcosa andasse sovrainciso. E' stato un lavoro tutto sommato tranquillo, meno pesante di un'intera sessione dei brani presa tutta in un giorno.
Ci siamo sempre confrontati, su ogni brano e anche sull'identità che il disco doveva trovare, con Francesco.
E' lui l'artefice del suono dei Cacao.
Lo studio Al mare è un posto magico. Ci sono un' infinità di amplificatori, strumenti ed effetti stupendi che possono ispirarti e portare i brani a svolte inaspettate, sia nel suono che nella struttura.
Francesco ha sempre una visione interessante su ciò che produce, offre spunti creativi che ci piacciono molto. Sicuramente ci sono cose del disco che sono proprio nate lì, Al Mare.".


Questo è uno dei duo più originali in circolazione, senza dubbio. Non ne esistono molti altri senza il cinquanta percento di batteria.
Chiedo: come si sta senza?
"In questo caso si sta bene. Noi amiamo i batteristi, sia chiaro. Con gli Actionmen e in altre formazioni abbiamo avuto il piacere e la fortuna di suonare con musicicisti formidabili. C'è voluto un po' per capire come far rendere, dal vivo, le nostre idee e avere il suono migliore per proporle. Tenere alta la tensione durante un live set è sempre una questione delicata anche con una batteria al seguito"- e come se lo è! - "Sicuramente è indispensabile cercare di ascoltare chi suona con te, essere connessi, andare nella stessa direzione. Sembrerà banale, ma non sempre succede. Non vediamo tante limitazioni nel non avere una batteria, ma grande libertà, consapevoli che possano pensare lo stesso i membri di un ottetto di musica celtica.".











Mi spingo oltre: voglio sapere cosa stanno progettando per il futuro:
"Il nostro primo disco, Astral, è uscito a fine 2016 e lo abbiamo suonato tantissimo in giro. per quasi tre anni, stiamo lavorando al nuovo, adesso. Abbiamo già registrato qualcosa durante una sessione di aprile 2019, nella quale abbiamo curato la colonna sonora originale del documentario Quasi Venezia (visibile on demand su Sky). Capiremo presto come muoverci e ci prenderemo il prossimo autunno per lavorarci su.".

Li ringrazio tantissimo per il tempo concessomi.
Mi darò da fare per portarmi ancora una volta a distanza ravvicinata dalla loro alchimia sonica...


Luz

mercoledì 11 settembre 2019

Sloks



Sloks








Il video di "Dad can Dance" ha appena smesso di girare, ora sono qui che rifletto sulle centomila immagini che mi hanno perforato la mente. Mi lascia questo sapore, un' idea sfasciata d' America, del tipo: l'auto di James Dean ridotta in rottami fumanti mentre l' ultima delle pin-up già ci danza sopra seminuda.
Polvere e desiderio, offuscamento dei sensi e violenza, lo schiaffo di un rullante che gocciola incessante dal soffitto, il fuzz che romba come un motore sul circuito di Daytona, una voce suadente che si stacca dai solchi di un vecchio trentatrè giri per raggiungerti nel sogno, fino all'alba.















Nelle orecchie ho questo album che pezzo dopo pezzo mi trascina dentro uno scantinato popolato di spiriti perduti in un saturday night infinito, dove suona un blues incandescente e dannato.
La chitarra di Buddy Fuzz è un tuono che squarcia il fumo denso di questo immaginario marcio bar al confine del deserto. Il sapiente lavoro di produzione fatto a Tolosa agli Swampland Studios ha dato alla batteria di Peter Chopsticks (ora sostituito da Tony Machete) il suono perduto dei nastri magnetici, affiora prorompente e distorto, cupo, rimbomba sui mattoni rossi del garage punk.
Il grido narrante, disperato e ammiccante di Ivy Claudy riverbera tutt'intorno, strattonandomi come in una litigata furiosa con Tura Satana in "Faster Pussicat Kill! Kill! Kill!"

Ivy Claudy
Gli SLOKS vengono da Torino, sono attivi dal 2015.
Dopo un primo 7" uscito per Double Face records, SOB records e Resurection Records (USA), dal 2017 hanno lavorato al loro primo album, uscito a fine settembre del 2018: "Holy Motor", per l'etichetta dell' one-man-band più illustre del garage europeo, il Reverendo Beat Man.
Nel disco dieci tracce lo-fi noise con personalità alterata. Le ascolto tutte fino all'ultimo respiro, fino all'ultimo feedback strappato al fade-out, come se si spegnessero nel sonno dopo una sbronza colossale dimenticando tutto il frastuono della notte appena passata.

Adesso non resta che vederli dal vivo in uno dei prossimi tour.
Dopo aver aperto concerti a band del calibro di Oblivians, Power Solo e John Spencer & The Hitmakers, voleranno in Giappone, per partecipare ad un festival assieme a Mummies, Phantom Surfers e Guitar Wolf!

Buon delirio, a noi ed a voi, Sloks!


Luz







venerdì 23 agosto 2019

HeartBlack Out - Cry Me a Rembauw Baby


HeartBlack Out











Quando si parla di musica elettronica si parla di ricerca, tecnica ed individuale, di rapporto con le macchine, di innovazione e di ritorno alle origini, mentre una serie di led impazziti lampeggiano sullo sfondo.
Abbiamo incontrato HeartBlack Out per la seconda volta, dopo tre anni, sempre nella sua wunderkammer piena di storie, simboli, feticci, strane bambole cibernetiche, e tutto raccontava di processi creativi.
Un nuovo disco, come una nuova scultura, è un punto fermo sul percorso. Rappresenta quello che l'artista ha interiorizzato fino a lì e deve essere reso materia, per poter proseguire alleggeriti e con forze rinnovate.

La tecnologia moderna non è tutto, nell'elettronica.
C'è sempre bisogno di saperla interpretare, di saperne cogliere le opportunità, oppure, di lasciarla correre mentre al posto di un touch-screen si preferisce ruotare un potenziometro.
A volte, in questo mondo tanto onnipotente quanto fragile, capitano disavventure cibernetiche.
Tutto sparisce o si decompone improvvisamente.
Quale scelta può compiere l'umano?
Ricominciare, ricomporre, abbandonare?
HeartBlack Out ha giocato bene le sue carte.


Il suo nuovo lavoro "Cry Me a Rembauw - Baby" progredisce verso beat tutt'altro che soft e più adatti ad una dance-hall che raggiunge l'alba dopo un afterhours.
Bassi distorti e synth serpeggianti si avvolgono sulla cassa in quattro quarti, incalzante, come vuole la tradizione.
Tutt'intorno piovono le note riverberate di un ricordo d'infanzia.

Aspettiamo dunque il prossimo live-set, un'esibizione a tutto volume, per vedere i pezzi metaforicamente alzarsi in piedi dalla tastiera, dal controller, dal monitor di HeartBlack Out, ed incamminarsi incontro a noi.


Luz

sabato 27 luglio 2019

Land Wars - Italian Party 2019


Land Wars
E' un caldissimo pomeriggio a Umbertide, ma quest'anno si torna all' "Italian Party", cascasse il mondo, anzi, si sciogliesse il mondo: una ricarica di novità e conferme dall'etichetta To Lose La Track e ospiti vari che mi serve per capire a che punto siamo della storia dell' hard/emo/post/no-core & Co.
Tra la psichedelia dei Cacao e l'aggressività dei Lantern mi imbatto in questo formidabile duo inglese.

I Land Wars sono di Londra, l'ho letto dopo, ma lì sul momento quando l'estroverso e carichissimo Sean, il batterista, si presenta al pubblico con un caloroso saluto in un italiano abbozzato ma sincero, si capisce che non sono un prodotto locale.
Anche se, in una giornata così, l'Italia si confonde con l'oltremanica e l'oltreoceano e viceversa, senza strappi.
E' un unico mondo di rock'n'roll e tendenze planetarie che sappiamo benissimo interpretare, da sempre.



Fatto sta che mentre Cris, il chitarrista, accorda la sua Fender, Sean si è già rovesciato addosso mezzo litro d'acqua inzuppandosi tutto. Ora è prontissimo, anzi, un'ultimo brindisi dall'alto del suo sgabello, ecco, ci siamo.

Un profluvio di arpeggi e tapping in tonalità maggiore, maggiorissima, veloce e spensierato fuoriesce da quelle sei corde dal suono cristallino.
Che tecnica completa!
Ma non c'è nulla di cervellotico e noiosamente prog in tutto questo, no, perché è tutto molto fluido, senza alcuna attesa fra i passaggi.
Cris riesce anche a saltellare tra uno stop and go e l'altro, c'è la confidenza con l'esibizione, nonostante la complessità dei pezzi richieda evidentemente di non staccare un secondo gli occhi dalla tastiera.





E il bello è che Sean lo segue colpo su colpo in ogni cambio e su ogni accordo o singola nota e lo incalza con groove funky quando il pezzo deve scattare in avanti.
Non si sa mai quando stanno per suonare l'ultimo riff di un brano, poi quando succede scatta l'ovazione.
Perché tutto questo è saper suonare, con padronanza accademica, il proprio strumento, senza però quell'auto-referenzialità inutile che un certo jazz o blues spesso tendono a mostrare.










Uno spettacolo coinvolgente che ha termine con un lunghissimo applauso nel caldo del chiostro dove è allestito il loro palco. Già fuori, nella seconda postazione, si sente il rumore del sound check di un'altra band, andrà tutto avanti così fino all'una di notte.
Mentre sono in fila per una birra li vedo passare.
Li fermo e mi congratulo con loro.
"Era proprio caldo, eh?" dico loro, "Si, ma è stato davvero divertente!".risponde Sean.











Solo divertente?
E' stata una bomba!
Al prossimo anno, Italian Party.

Luz

domenica 9 giugno 2019

Dj Overdraft



Entro nel club presto, che c'è ancora poca gente e così mi posso avvicinare alla consolle.
Dj Overdraft è lì che programma il set per la serata che sta per cominciare.
Il viso illuminato nel buio dallo schermo del suo Mac, gli occhi che seguono una frase scritta col suono, mentre una mano scorre sul puntatore e l'altra cerca un potenziometro o un tasto luminoso sul mixer.
I neuroni microchip del computer e la mente umanoide del producer, che ormai pensa in "algoritmico" per sfruttare le infinite potenzialità della musica elettronica, sono amalgamati e luminescenti, i corpi in sala cominciano a muoversi ed a seguire il beat.
Che il ballo cominci.
Dj Overdraft
Il viaggio per Londra, dove ormai vive e lavora da qualche anno, sarà fra pochi giorni.
Questo set è un'opportunità per chiedergli qualcosa di più approfondito sul perché abbia cambiato nome d'arte, una volta Q*Ing, e genere musicale, e cosa significhi vivere in quella megalopoli così densa di culture e ispirazioni, oltre a un' insostenibile ritmo biologico e complicazioni sociali.

Mi racconta:"Overdraft in inglese è quando hai un deficit nel tuo conto bancario causato dall'aver ritirato più soldi di quelli che si posseggono. Credo che sia una parola veramente 'generazionale' almeno a Londra, dove la vita è notoriamente costosissima.
E' un nome volutamente stupido, mi piace prendermi poco sul serio, come nella vita in generale, e poi sono un appassionato della cultura 'meme', voglio dire, ho fatto un pezzo campionando Ezio Greggio!"
Ci spostiamo sull'ambito più nascosto della sua attività, quello che c'è a monte di ogni traccia che ascolteremo stasera: il lavoro di ricerca e sperimentazione che l'artista intraprende solitario, cavalcando la propria creatività.
Cosa lo attrae  di questo mondo di complessi software di programmazione e schemi all'apparenza ripetitivi?
Una band può ragionare con più menti coinvolte nel flusso, più mani, più voci.
Un produttore deve scegliere da se'. Sua sarà la gloria o il fallimento, e da lì ricomincerà.
Overdraft : "Ci sono tanti motivi, alcuni più romantici, altri decisamente più pratici! 
Mi piace senz'altro la comodità di fare tutto da solo, di gestire i miei tempi  e i miei spazi, e di poter fare tutto da una scrivania. Sono più che altro affascinato dal potenziale espressivo di questa musica, dal fatto che possa sia unire e fare gruppo che essere molto riflessiva ed intima, anche all'interno della stessa serata".
Poi aggiunge: "Prima di spostarmi a Londra il mio background musicale era completamente diverso da quello che mi piace ascoltare e suonare oggi. I miei ascolti di musica elettronica erano ancora molto legati all'estetica indie, alla musica suonata. Non riuscivo a comprendere bene la figura del Dj che non fosse principalmente anche producer, così come non riuscivo a farmi piacere certi generi musicali puramente 'dance floor oriented', avevo sempre bisogno di un riferimento melodico o comunque di una 'struttura canzone'. 
Poi, vivendo a Londra, è cambiato tutto.
Londra, vista da Dj Overdraft
Può sembrare sciocco, ma vivere quotidianamente i quartiere, i locali, le subculture e le atmosfere generali inglesi mi ha fatto capire il perché e come certi generi musicali siano nati lì.
Ho cominciato ad appassionarmi a stili come l' UK Garage o l' Acid House e da lì e nata la necessità di voler ripartire da zero artisticamente e dare voce a tutte queste nuove ispirazioni".

Ed ecco che Dj Overdraft generosamente condivide il suo modus operandi: " Quando produco cerco di non darmi troppi limiti dal punto di vista musicale. I miei pezzi sono accomunati da suoni Lo-Fi (a volte in maniera estremizzata) ed atmosfere nostalgiche e melodiche, ma questo è davvero l'unico filo conduttore tra le mie tracce, benché fondamentale.
Principalmente mi muovo tra House, Techno e Disco, anche mescolate tra di loro, ma ultimamente sono fissato con la musica Gabber e sto addirittura producendo un pezzo Hard Core!
Mi capita spesso, magari, di vedere un documentario, di leggere un libro o di ascoltare un set che mi ispiri a sperimentare cose completamente diverse da quelle fatte in precedenza, e mi piace la possibilità di poterlo fare mantenendo comunque un preciso filone stilistico".
Shoreditch (Londra) - foto di Dj Overdraft

Gli chiedo cosa sia cambiato rispetto al suo precedente progetto Q*Ing, dove le citazioni
"eighties" stavano distese su un tappeto di synth caldi ed emotivi, in una stanza dove tutto si muove in slow motion e voci lontane riverberano emergendo  dalle pareti.
"Per quanto riguarda la fase di produzione devo dire che, nonostante componga pezzi pensati per il dance-floor (quindi a BPM molto più elevati rispetto ai miei lavori come Q*ing) il mio approccio è rimasto quasi del tutto invariato. Credo di essere molto hip-hop da questo punto di vista: mi piace campionare di tutto: interviste, film, programmi televisivi. Ovviamente ci sono molte parti suonate con il synth (VST per essere precisi), ma non credo di aver mai prodotto un pezzo senza anche solo parte campionata da me".

Sull'aspetto da "dietro le quinte" ho indagato abbastanza, torno quindi davanti alla consolle e chiedo come vadano i suoi show.
Lui mi dice: "Ho suonato circa una decina di set come Dj Overdraft e mi sono bastati per realizzare che, al momento, il dj-set è la formula che più mi conviene utilizzare per una lunghissima serie di motivi. Ho insistito con il live-set all'inizio della mia avventura, proprio perché non volevo dimenticarmi della prima parte del mio percorso musicale - e qui si riferisce ad ancora prima di Q*ing, quando era bassista di una band - come se buttandomi esclusivamente sul DJing facessi un torto al 'me- musicista'. Col tempo ho capito che in realtà diatro ad un dj-set fatto a modo c'è molta inventiva, skills tecniche, creatività e divertimento, alla pari di un Live Set.
Con questo non voglio dire che il capitolo live-set sia del tutto chiuso, aspetto solamente di avere i mezzi giusti (ad esempio: una band!) per creare uno show che mi convinca davvero.
Nei dj-set mi piace spaziare tantissimo tra i generi. Anche se ovviamente la playlist che scelgo dipende dal contesto, ci sono dei pezzi che cerco comunque di suonare ogni volta, i miei 'banger' preferiti. Tre su tutti: Ian Pooley - 900 degrees, Mella Dee - Techno disco tool e Kh aka Four Tet - Only Human." e torna su Londra : "E' una città molto dura, il costo della vita è esagerato ed è tutto estremamente frenetico e tutto questo a volte rischia di prosciugarti tutte le energie. D'altra parte, uno dei più grandi vantaggi di vivere lì è quello di trovarsi nell'epicentro della cultura mondiale (finché la Brexit non distruggerà tutto!). E' un discorso applicabile a tutte le arti e non solo, ma in particolare la musica è vissuta con così tanta passione che è impossibile non esserne coinvolti.
Faccio l'esempio dei 'warehouse party': dei rave illegali fatti dentro ex fabbriche dove si entra solo su invito segreto, con tanto di password! Solitamente la line-up prevede nomi grossissimi tra i dj's, che però non sono pubblicizzati nell'evento, quindi ogni volta è una sorpresa."
E che gente gira in queste feste? chiedo: " Puoi trovare dal banchiere allo studente, tutti sono lì esclusivamente per la musica e per divertirsi. Ci sono sempre delle ottime vibrazioni e nonostante la frequente, se non costante, mancanza di security, non succede mai nessun casino.
Questo alone punk DIY, unito alla leggerezza del party in se', per me è sempre qualcosa di stimolante ed ogni volta che torno da un warehouse party ho addosso questa sensazione di aver imparato qualcosa, come se fossi tornato da un seminario!".
So che nell'ultimo anno si è tolto anche qualche prima bella soddisfazione. Sorride e annuisce: " Aprire il tour italiano dei La Femme, insieme ai miei coinquilini, è stato un bel momento, ma anche se può sembrare stupido, uno dei set più divertenti e appaganti è stato circa una decina di giorni fa nel mio vecchio appartamento.
Abbiamo organizzato una festa di addio prima del nostro trasloco e anche se inizialmente avevamo previsto circa venticinque persone, alla fine se ne sono presentate quasi sessanta! Io e il mio coinquilino ci siamo fiondati sui Cdj e abbiamo messo musica per sei ore, con tutti che ballavano selvaggiamente stretti come sardine tra il salotto ed il giardino. E' stato incredibile! Comunque, come dico sempre, le migliori date sono quelle che verranno!"
E' quasi ora di chiusura, ora mi è tutto un po' più chiaro.
Sono tuttavia certo che la prossima volta che ci incontreremo non troverò già più il Dj Overdraft con cui ho parlato stasera, ma un nuovo modello, più avanzato o, magari, al contrario, opportunamente de-strutturato per cominciare di nuovo da zero, dalla polvere sonora che gli resta sulle dita, di ritorno verso casa da un club o da una fabbrica abbandonata, da un punto A ad un punto B, nel brulicare nervoso della City o nelle periferie bizzarre, dove fa buio sempre troppo presto.

Luz 






























martedì 12 febbraio 2019

The Gentlemens


La Corte dei Miracoli, a Siena, ha riaperto da qualche mese: è una notizia grandiosa.
Decidiamo di ricominciare a frequentarlo stasera che da Ancona arrivano i Gentlemens.                 
Il trio sale sul palco verso le undici e la sala si riempie piano, con curiosità.
Scorgo una splendida chitarra "Billy Boy" adagiata sul sostegno alla destra del palco e già immagino l'entità della distorisione, l'equilibrio sbilanciato dei toni medi e bassi, la corposità di un suono fuori dal classico e dal comune che ne verrà fuori: una vela dispiegata con il vento del garage punk a favore.
La impugna Giordano, GB, che dall'inizio alla fine del concerto suona senza scomporsi, "come fa?", mi chiedo, con in mano quel gioiello e la sua arroganza elettrica?
Non si può dire lo stesso di ciò che succede a sinistra della scena, dove Paolo, PF, il frontman e l' anchor-man della band interpreta il suo personaggio a metà fra Nick Cave e Jon Spencer, indossando un lussureggiante abito gessato scuro.
Al centro della scena c'è la batteria di Daniele, DF, e la sua figura imponente a dominarla.
Un lungo ciuffo scende sul suo viso sudato e sulla sua barba e rimbalza indietro ad ogni colpo. Un head-banging da seduto che traccia il pezzo come un elettrocardiogramma su un monitor.
I tre hanno un'intesa esemplare, vengono da anni di esperimenti e ricerca sonora.
Ognuno con la propria individualità fusa nel progetto "Gentlemens".
Spaziano su più variabili del punk, del garage e del blues, mescolando repentinamente gli ingredienti da brano a brano lungo la scaletta.
Alternativamente, il suono carico di feedback lascia il posto a brevi riff autenticamente rock-blues, ballabili. Il pubblico capisce e si muove, salta, si scontra.
L'enfasi e l'estasi di PF iniziano a totalizzare la scena.
Ci guarda, ci sente, ci esorta.
Le linee bianche, parallele e regolari del suo completo sono un ordine che presto verrà sovvertito;
ancora un paio di pezzi e la giacca volerà via.
Mi allontano un attimo per prendere una birra e quando torno in sala rintoccano tre note discendenti, un coinvolgente giro suonato a ripetizione. Le ombre danzano  illuminate a momenti dalle luci di palco che passano attraverso i Gentlemens.
Il pezzo che si apprestano a fare, in questo momento, è una cover degli AIR, alla quale hanno cambiato il nome da "Sexy Boy" a "Sexy Girl", accendendo un falò elettrico sul semplicissimo ma efficace giro di basso originale, generando una metamorfosi, partorendo una nuova creatura musicale che di "french touch" ormai ha ben poco.
Concludo la serata con un lungo applauso.
Lo show è stato di alto livello.

E poi sono proprio contento che la Corte sia di nuovo tra noi.

Luz





 

venerdì 14 settembre 2018

NoBunny


Esco presto e vado al Beta Bar prima di cena.
E'venerdì 7 settembre, in programma: "The Cogs + Slushy (la backing band di..) + Nobunny", tassativa la presenza sotto al palco, ma non è abbastanza.
Mi va di parlare con Justin Champlin prima che lui e la sua band si trasformino in conigli pazzi e si mettano a saltare a destra e a sinistra rendendo impossibile scattare loro una foto quantomeno decente.
NoBunny
"Pizza time!" alle otto di sera, poi un po' di birre e chiacchierata pre-concerto, con il Beta Bar che va riempiendosi lentamente.
Justin è un ragazzo di Tucson, Arizona, con il cappellino e la t-shirt di una band, che si gode la serata senza fretta, che balla da seduto e simula la batteria del pezzo dei Television che stanno passando in sottofondo. I colleghi lo sostengono nel gioco, due parole fra intenditori e un sorso di Corona.
Ingannare il tempo e risparmiare energie per poi sperperare tutto una volta che sali in scena è una ginnastica per rock'n'rollers che si impara con il tempo.
Gli Slushy, la sua allegra backing band, che si esibirà prima di lui e dei Cogs in un live di aperturafatto di gradevolissimo punk in tonalità "tramonto californiano" - sebbene siano di Chicago - con Justin ( si, lui, NoBunny..) alla batteria, conoscono e hanno condiviso il palco con decine di band  delle quali mi snocciolano i nomi quando paragono la voce di Justin a quella di King Tuff. Quanti amici, quanti personaggi e situazioni più o meno assurde hanno visto, attraversando due continenti in un furgone, ormai da anni!
La scena punk internzaionale è un filo elettrico sul quale si può camminare sopra per migliaia di chilometri e per decine di anni, indietro e avanti nel tempo.
Slushy

Suonano per primi davanti ad un pubblico curioso ed alternano pezzi che sembrano "Going To San Francisco" di Scott McKenzie a boogie-woogie acidi, sguaiati,  irresistibili.
Al culmine di una parabola ascendente di foga e attitudine punk entrambi i chitarristi scendono dal palco e si sdraiano sulla schiena per un secondo, poi,  come presi da uno spasmo elettrico, si contorcono in capriole l'uno accanto all'altro avvinghiati alle loro Fender urlanti.
E poi in piedi, finito il numero, prossimo pezzo.








Poi tocca ai Cogs, l'unica band locale della serata.
Intanto che si preparano do un'occhiata in giro, stanno arrivando facce conosciute degli ambienti rock and roll del centro Italia. Facce sorridenti, chiappe da sgranchire dopo una guida di ore, dopo il lavoro e convenevoli pronti all'uso.
Dedicano abbracci sinceri ai compagni di banco nella scuola del Do It Yourself e Johnny ha già indossato i sui occhialoni scuri, cembalo in una mano, microfono nell'altra. Andy, invece, ha una lente mancante nei suoi, sembra una benda piratesca con la montatura.
Phil è pronto dietro ai tamburi.
T Re lo è già da un pezzo, armeggia con il basso, distribuisce birre sul palco.
Non manca più nessuno, comincia lo show.
The Cogs







Ci colpisce uno schiaffo di puro garage punk, spesso fatto di due soli accordi per giro, con il pedale del Fuzz di Andy acceso al primo pezzo e mai frenato, del resto perchè dovrebbe?
Le teste dell' audience si agitano, roteano, dondolano avanti e indietro.
T Re accende una sigaretta, un po' di cenere cade sul basso quando lo "stop and go" di un pezzo lo fa scattare sull'attenti.
Johnny, alla terza canzone, ha già percorso l'area del palco e della platea dieci volte, con un'espressione celata e misteriosa ti si avvicina, cantandoti in faccia o dritto nelle orecchie.
Passa un'altra ora ad alto voltaggio, i Cogs hanno divelto ogni barriera tra musicisti e spettatori, hanno fuso tutto in un nucleo incandescente di adrenalina, euforia, sarcasmo, sudore.
Hanno preparato il terreno ideale per un concerto di NoBunny.








Vado a prendermi un' ultima birra e getto un'occhiata nel parcheggio dietro al bar.
Gli Slushy e NoBunny sono già metà uomini e metà conigli, Justin è in mutande e so già che rimarrà così, senza pantaloni e scalzo. Un paio di manette penzolano dall'elastico sulla coscia, la giacca di pelle cortissima copre a malapena le sue scapole nude e poi c'è la maschera: un trancio di pelouche grigio con buchi sugli occhi e sulla bocca e due brandelli che simulano le grandi orecchie alti sulla fronte, un simpatico nasino da coniglio in plastica, una fascia elastica nei capelli che tiene tutto insieme.
Un'immagine allo stesso tempo simpatica e terrificante.
Così conciato va ad ordinarsi un whiskey al bar, sorprendendo i clienti che sulle prime restano di stucco, poi fanno una foto di nascosto, poi si fanno un'altra foto insieme a lui. Il suo personale spettacolo è già cominciato ed ha portato tutto il locale nella dimensione dell'assurdo.
I suoi compagni non sono da meno quanto a immedesimazione, tutti si sono trasformati come Justin, il palco ora è un mondo fiabesco parallelo che si è aperto un varco nel nostro, non c'è più niente da fare.
Un mazzetto di carote fresche viene legato al suo microfono, ora la scena è completa, comincia il delirio.







Justin prende la chitarra e saluta il pubblico con affetto traboccante, non lesina inchini e high-five a chi gli sbraita contro per incitarlo.
E' un concerto che stacca i piedi da terra subito.
I suoni sono pompati da riverbero e overdrive abbondanti, chi si è già stretto sotto al palco ne viene finalmente travolto. E' venuto per questo, e per la stridula quanto penetrante voce di questo animale mitologico che ci sta invitando a fare più casino che possiamo.








Abilità da intrattenitore di Varietà, acrobata, ballerino, punk rocker: un performer completo, benché privo di calzature e  pantaloni. Anzi, proprio per questo.
I pezzi di Nobunny, perfettamente interpretati dagli Slushy, circoscrivono l'area del punk e del power-pop, il pubblico più fedele che si è aggiudicato il primo metro dal palco canta tutti i sing along - il suo punto di forza - col dito puntato verso di lui.
Pezzo dopo pezzo, gag dopo gag, nella consueta apnea da concerto che proviamo quando non facciamo altro che urlare, fischiare ed applaudire contemporaneamente per un'ora dimenticandoci di respirare, lo spettacolo raggiunge il culmine.
La band sta suonando l'intro di "Cuck Berry Holiday", solo chitarra e basso, mentre lui canta e porta fra la gente il piatto crash della batteria.
Come fosse la cosa più naturale del mondo da fare in quel momento, Justin estrae un flacone di qualcosa e ci cosparge il piatto.
E gli dà fuoco.
Quel disco di metallo infiammato è ora il suo strumento e quando la strofa cambia e la batteria entra fulminea, lui colpisce a tempo il crash ripetutamente, correndo e saltandogli intorno a trecentosessanta gradi, mentre la folla che lo attornia sgrana gli occhi e approva la sua ennesima trovata della sera. Il fuoco si spegne. Prontamente riporta il piatto al legittimo proprietario in tempo per la rullata e cambio strofa - ma il cavo del microfono si è staccato, glie lo passano, canta con quello disponibile del bassista mentre risolve il problema - ed è di nuovo il momento di cantare con lui il ritornello.
E lui salta a centro palco, il coniglio bianco alla sua sinistra fa lo stesso, si teme che la pedana non possa sopportare oltre.

Invece sopporta tutto questo incredibile show fino alla fine.
Il mondo sguaiatamente fiabesco di NoBunny e dei suoi amici sparisce dietro le quinte.
Incrocio gli sguardi euforici di chi l'ha visto per la prima volta.
Osservo i sorrisi a mille denti di chi se l'è goduto di nuovo e sa che tornerà.

Luz